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L'iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
(Art. 41 Cost. Italiana)
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27 maggio 2008
Se il petrolio va a picco
"Se il petrolio va a picco" di Francesco Piccioni
«Per rimpiazzare greggio e gas naturale non c'è nulla sulla terra». Parla l'astrofisico Di Fazio
Alberto Di Fazio è astrofisico teorico
presso l'Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf), membro della
Commissione Nazionale Cnr/Igbp (Programma Internazionale
Geosfera-Biosfera), responsabile italiano del Progetto Igbp/Aimes
(Analysis, Integration, and Modeling of the Earth System), presidente
Global Dynamics Institute, accreditato presso la Conferenza delle Parti
sotto la Unfccc (Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti
Climatici). Il petrolio è aumentato del 500 per cento in sei anni, mentre la produzione è di fatto stabile da tre. Cosa sta succedendo? Non
si può più fare quello che si è fatto per oltre 100 anni: pompare
sempre di più moltiplicando i pozzi. Su più di 90 paesi produttori, 62
hanno raggiunto il «picco» e sono quindi in calo; quelli che non
l'hanno raggiunto - come l'Arabia Saudita e altri minori - non riescono
ad aumentare l'estrazione in misura sufficiente a compensare. Gli Stati
uniti hanno «piccato» per primi nel 1970, dopo aver «carburato» col
petrolio due guerre mondiali e un grande sviluppo economico. Il
Venezuela ha piccato nel '70, così come la Libia; l'Iran nel '74. Gran
Bretagna e Novegia tra il '99 e il 2001. La Russia lo aveva fatto una
prima volta per motivi politici (il crollo dell'Urss), poi si è ripresa
ma ha piccato di nuovo nel 2007, senza peraltro mai raggiungere il
livello precedente. Di conseguenza, l'offerta è praticamente stabile -
tra 86 e 87 milioni di barili al giorno (mbg) - mentre la domanda
cresce rapidamente. Perciò il prezzo non può che aumentare. Eppure le compagnie petrolifere rispondono che anni di prezzo troppo basso hanno disincentivato nuove esplorazioni. Sono
dichiarazioni di natura politica. Se ascoltiamo geologi o ingegneri che
lavorano per conto di queste compagnie capiamo che c'è stato tutto il
tempo - 20 o 30 anni - per cercare ancora. Ci spiegano che la
tecnologia esplorativa è migliorata di un fattore 500 o 600 rispetto al
1963, quando venne raggiunto il «picco» delle scoperte. Si utilizzano
satelliti, strutture a ologramma, infrarossi, cose che non ci sognavamo
neppure. Negli Usa, tra il '70 e l'80, c'è stato un boom di
trivellazioni, quadruplicando il numero dei pozzi. Ciò nonostante, in
quella decade, la loro produzione è progressivamente calata. Non è
mancata la ricerca, ma i risultati. Sentiamo spesso di «grandi giacimenti» appena scoperti, come in Brasile o nell'Artico. Quello
in Brasile è stimato tra i 10 e i 20 miliardi di barili. E' «grande»
per il Brasile, perché porterà lì ricchezza ed energia. Ma a livello
mondiale, rispetto ai 1.000 miliardi di riserve dichiarate esistenti -
la metà di quelle iniziali - questo giacimento sposta il «picco» di due
o tre mesi. Quello sotto l'Artico non dovrebbe neppure avvicinarsi alle
dimensioni di Ghawar in Arabia o di Cantarell in Messico. E in ogni
caso, per poterlo sfruttare, sarebbe necessario un riscaldamento
globale tale da sciogliere la calotta polare. Non proprio una cosa da
augurarsi. Ci sarebbe bisogno di trovare subito, ma proprio subito,
2-300 miliardi di barili per spostare il «picco» di cinque o sei anni. Quanto pesa il petrolio nel bilancio energetico globale? E si potrebbe sostituirlo, in modo credibile? Il
70% del raffinato va in combustibili da trasporto (benzina, diesel,
cherosene, ecc). Il 98% di questi combustibili viene dal petrolio; così
come tra l'85% e il 90% dell'energia totale proviene dagli idrocarburi.
Solo tra il 7 e l'8% viene dal nucleare. Il resto, pochissimo, dalle
rinnovabili. Per rimpiazzare petrolio e gas naturale non c'è
praticamente nulla, sulla terra. L'idrogeno non esiste in forma libera,
ma va fabbricato impiegando più energia di quella resa poi disponibile.
Per il carbone si parla di centinaia di anni, ma in realtà si tratta di
un minerale a più bassa intensità di energia, che ne richiede molta già
per l'estrazione. Il carbone realisticamente utilizzabile basterebbe
per qualche decina di anni. Tra le «non rinnovabili» c'è anche
l'uranio, su cui esiste una stima molto precisa di Rubbia e di David
Goodstein (del Caltech): ne abbiamo per 20 anni da adesso. Usiamo 14
Terawatt di energia; a volerle fare col nucleare servirebbero 10-15.000
centrali in 20 anni. Una ogni giorno e mezzo! Anche dal punto di vista
dei materiali (acciaio, cemento, ecc) è impossibile. Negli Usa ce ne
sono 104 e in tutto il mondo poco più di 400. Il nucleare potrebbe
essere al massimo un «ponte» a cavallo del picco del petrolio. Ma anche
le rinnovabili lo sono. Per fare le pale eoliche o i pannelli solari
bisogna andare a prendere l'alluminio, fare attività di miniera; e
questa si fa con l'energia del petrolio, mica con pala e piccone. Ma
dove sta tutto questo alluminio? Questo significa che dipendiamo dal
petrolio anche per le rinnovabili. Che cosa bisognerebbe fare, allora? Tirare
il freno a mano, conservare petrolio e gas rimanenti per fare queste
benedette rinnovabili, finché è possibile. Anche la tecnologia proposta
da Rubbia ha bisogno di energia da petrolio. Non possiamo fare le
acciaierie con un'economia che va a legna. E nemmeno con l'energia
nucleare, perché una centrale deve essere a temperatura moderata (2-300
gradi) altrimenti fonde il nocciolo. Noi potremmo concentrare quella
metà di petrolio rimasta, risparmiando sui trasporti di merci
voluttuarie e salvaguardando quelli «necessari». E dobbiamo tener conto
che anche l'agricoltura, al 90%, dipende dal petrolio. Senza, la
produzione agricola si ridurrebbe da 10 a 1. Ma come sono conciliabili capitalismo e decrescita? In
nessuna maniera. Il capitalismo è fondato su un'equazione che è un
esponenziale. Ogni incremento annuale è proporzionale a un certo
coefficiente moltiplicato il capitale stesso. E' una curva che cresce
sempre di più, come quella dell'interesse composto. Il capitalismo è
reinvestimento e crescita. Ma non esiste un investitore che cerca di
guadagnare meno di quel che investe. E quindi l'intervento pubblico
sarà obbligatorio. Mi soprende che se ne cominci a rendere conto la
destra, come fa Tremonti nel suo ultimo libro, dove dice apertamente
che il mercato non si può più regolare da solo. Mi sorprende che non lo
dica invece più la sinistra. Si capisce ormai che è in arrivo una crisi
peggiore del '29, ma non si dice il perché. Questa è in realtà più
grave, perché nel '29 si era partiti da una bolla speculativa
temporanea. Qui avviene per un fatto naturale, geologico. Finiti
petrolio, gas e carbone, nessuno ce li rimette più. Tutto
questo era già stato anticipato dal Club di Roma, addirittura nel 1972.
Poi non si è fatto nulla. Quelle previsioni furono definite ad un certo
punto sbagliate. Come stanno adesso le cose? Alcuni
governi, come Gran Bretagna e Usa, hanno costruito delle task force
interministeriali per gettare fumo. Hanno prodotto libri per dire che
non era vero, ovviamente senza alcun fondamento scientifico. Il Club
prevedeva la crisi economica mondiale nel 2020-2030, il crollo della
produzione agricola nello stesso periodo, il calo della produzione di
greggio e gas naturale (ma non l'«esaurimento»!), e il picco della
popolazione globale un po' più in là nel tempo, nel 2040-50. Sulla
popolazione ci hanno preso in pieno: 6 miliardi di persone nel 2000 e
così è andata. Sulla crisi industriale, mi sembra proprio che ci stiamo
arrivando. Sulla produzione agricola ci siamo già: il prodotto agricolo
pro capite ha cominciato a flettere nel '98, ora anche quello totale.
Basta guardare i grafici da loro prodotti nel '72, nel '92 e poi ancora
nel 2002 per vedere che in tutte e tre le previsioni si calcolava che
le risorse nel 2000 sarebbero state consumate per un quarto e quindi,
sapendo che il «picco» si colloca sulla metà, invitavano ad agire in
tempo. Semmai i loro calcoli sono stati fin troppo ottimistici, visto
che siamo sul «picco» già ora invece che nella terza decade di questo
secolo. Loro speravano che il sistema avrebbe reagito subito alla
scarsità a alle crisi locali, riallocando nella maniera più saggia le
risorse. E invece vediamo che persino il protocollo di Kyoto - un puro
esperimento di riduzione delle emissioni del 5% (mentre servirebbe
l'80%) - è rimasto lettera morta. Il modello, infine, era
superottimistico perché non prevedeva né guerre né conflitti sociali di
grande ampiezza. E invece, oltre quelle già avvenute o in atto, c'è una
pletora di analisti che ci mostrano come altre se ne stiano preparando.
E più violente delle attuali.
Da Il Manifesto del 25 Maggio 2008
energia
petrolio
peakoil
| inviato da ariafritta il 27/5/2008 alle 19:27 | |
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